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Mentre il nostro
golfo si
appresta a
ricevere ed
onorare, nel
prossimo
settembre, le
spoglie del suo
patrono, san
Venerio, può
interessare il
conoscere, per
chi non lo
sapesse, che la
chiesa abbaziale
di san Lorenzo
di Porto Venere
(consacrata dal
papa Innocenzo
II nel 1130) è
la depositaria
dei resti
mortali di un
altro grande
eremita, san
Pacomio, uno dei
fondatori, nel
IV secolo
dell’era
cristiana, del
cenobitismo
orientale.
Com’essi siano pervenuti avventurosamente
in tale sede,
diremo in
seguito, ed
intanto non sarà
fuori luogo
premettere
qualche breve
notizia sullo
storico
personaggio.
Com’è noto, il
monachismo
cristiano ebbe
origine
nell’alto
Egitto, dove i
primi asceti
vissero dapprima
separatamente
come anacoreti
riunendosi poi
in colonie di
monaci.
Il fellah copto Pacomio fu uno di questi.
Era nato a
Ebetan,
provincia della
Nitria, da gente
ricca, ma
idolatra e
durante la lotta
fra Costantino e
Massenzio aveva
intrapreso un
viaggio verso
l’Italia, ma
naufragato in
terra cristiana,
ne aveva
assorbito la
religione,
ritirandosi in
eremitaggio
nell’alta
Tebaide. Quivi,
secondo la
tradizione, Dio
gli avrebbe
dettato, come a
Mosè le regole
di una grande
istituzione: il
cenobitismo.
Uomo di alta
cultura ed
intelligenza le
tradusse subito
in pratica,
fondando a
Tabennisi sulla
riva del Nilo il
primo
stabilimento
organizzato di
monaci (anno 322
e. C.).
Rimandiamo alle fonti competenti per la
vita miracolosa
di questo
pioniere del
cristianesimo,
che aveva, oltre
a tutto, il dono
delle lingue e
sarebbe morto il
14 maggio
dell’anno IX
dell’impero di
Onorio ed
Arcadia, alla
bella età di 110
anni!
Un giorno imprecisato dell’anno 12O4 mentre
ferveva la
guerra fra Pisa
e Genova,
straccava sulle
rocce, o sulle
spiagge, di
Porto Venere,
portatovi dalle
onde e dal
giuoco delle
correnti, un
grosso trave in
cedro del Libano
delle seguenti
dimensioni:
lunghezza 4
metri, sezione
retta centimetri
40 x 40.
Come di consueto, coloro che ne avevano
eseguito il
ricupero si
accingevano a
spaccarlo, dopo
averlo tenuto
per assai tempo
esposto al sole,
onde farne legna
da ardere od
altro uso, non
senza averne
constatato
l’inusitata
qualità e
durezza; ma
dovettero ben
presto
accorgersi — e
non se ne
conoscono i
particolari —
dell’esistenza,
abilmente
camuffata e
ricoperta, di
una grande
cavità
nell’interno.
Come tutti possono ancor oggi constatare,
dato che il
prezioso relitto
è tuttora
esposto ai
visitatori nella
chiesa
anzidetta,
trattasi di
nicchia scavata
nel tronco per
metri 1.50 di
lunghezza per 30
centimetri di
profondità. Essa
conteneva
numerose
reliquie,
oggetti
religiosi e
gioie che il
Formentini ha
giudicato —
dalle poche che
ne sono rimaste
— di eccezionale
rarità e valore,
e fra le
reliquie
primeggiavano le
ossa di san
Pacomio, salvo
il capo.
A quanto pare, l’intero sacro deposito, con
il tesoro
annesso, erano
ancora intatti a
distanza di
quattro secoli e
mezzo, quando un
famoso
arcivescovo di
Genova, il
cardinale
Stefano Durazzo
— che primo
introdusse in
Italia le
benefiche
istituzioni
dette di
S.Francesco de’
Paoli — in una
sua visita alla
parrocchia di
Porto Venere, il
2 novembre del
1644, ne fece
redigere con
pubblico atto il
preciso elenco
tuttora visibile
a lato del
trave.
Eppure in quel periodo il baluardo genovese
aveva subito una
diecina di
attacchi, fra i
quali quello
degli Aragonesi
del 1494 che
l’aveva ridotto
ad estrema
rovina. Si era
fatta buona
guardia intorno
allo
straordinario
tesoro: non così
in tempi più
moderni, ché
ripetutamente,
nel 1878 e nel
1914, mani
sacrileghe non
esitarono a
manometterlo,
riducendo gli
oggetti preziosi
a ben poca cosa!
In origine comprendevano, fra l’altro, una
croce d’oro, con
gemme portata
dall’imperatore
Costantino e due
croci d’argento
dorato con legno
del Calvario.
Fra le reliquie,
oltre a quelle
di S.Pacomio
Abbate,
rinchiuse in
cassa d’argento,
dove tuttora si
trovano, vi
erano reliquie
di altri 36
santi, fra i
quali S. Pietro,
S. Paolo e S.
Lorenzo. ne vi
mancavano
campioni di
terra della
Palestina e dei
Luoghi Sacri,
fra cui il
Calvario, a
denotare la
precisa
provenienza dei
cimeli.
Sulla provenienza del trave, si hanno dati
vaghi e
malcerti.
Secondo alcuni
il trafugamento
delle preziose
reliquie ed
oggetti
religiosi di
gran pregio da
conventi od
altre
istituzioni
cristiane dei
Luoghi Santi
affidandoli alle
correnti marine,
fu una
conseguenza
della
persecuzione
degli
Iconoclasti.
E’ noto che nello stesso periodo un
crocifisso di
legno,
riproducente
l’esatto
sembiante di
Gesù Cristo
approdava al
lido di Luni e
di là veniva
trasportato a
Lucca e deposto
nella
cattedrale,
d’onde il titolo
di « Città del
Volto Santo »
alla ridente
cittadina
toscana. Ma
altri ritiene
che si tratti di
reliquie e
tesoro messi in
salvo per
sottrarli
all’occupazione
musulmana della
Palestina.
Il Lamorati, arciprete di Porto Venere,
scrivendo nel
1665 sulle vite
dei SS. Venerio
e Pacomio Abbati,
asserisce, non
sappiamo in base
a quali fonti,
che il prezioso
contenuto del
trave proveniva
addirittura da
Cesarea,
conquistata
dagli infedeli.
Una nave
l’avrebbe
trasportato fino
al nostro mare e
quivi « da
feroce burrasca
lacerata venne a
posare nella
placidissima
calma di Porto
Venere, tutto
deforme e impecciato (sic)
quel legno,
ossia trave ».
Un modo un po’ confuso per dire che la nave
era naufragata,
o che ridotta a
malpartito, si
era liberata del
pesante carico.
L’idea, poi di
nascondere i
preziosi oggetti
in un trave fu
suggerita, come
in altri casi,
in previsione
che la nave a
cui era affidato
potesse subire
qualche
spiacevole
incontro durante
il viaggio.
Porto Venere ha eletto san Pacomio suo
protettore; ma
la ricorrenza
passa
generalmente
inosservata di
fronte a quella,
tradizionalmente
festeggiata,
della Madonna
Bianca, la cui
immagine
taumaturga,
della quale è
nota la storia
assai
suggestiva.
viene venerata
dal 1399 (17
agosto); ma è un
errore ritenere,
come qualcuno ha
scritto, che
essa fosse
contenuta nel
trave e del
resto non ve n’è
traccia nel
famoso I elenco
redatto dal
cardinale
Durazzo.
Sono passati 756 anni da quando il trave
venuto dal mare
venne
solennemente
depositato nella
chiesa di S.
Lorenzo e
trattandosi di
legno
appartenente a
pianta assai
longeva, esso ne
contava forse
altrettanti alla
data del
fortunoso
ritrovamento: un
cimelio
millenario e di
alto significato
fra le vestigia
storiche
portoveneresi!
Lo additiamo
agli archeologi
ed a quanti
hanno a cuore il
prestigio delle
nostre più belle
memorie paesane
e d’interesse
turistico, per
una sistemazione
meno negletta e
più decorosa
dell’attuale.
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